Categorie
#GURRU Blog

Ci sarà una volta in Europa

Ci sarà un volta in Europa…
Fine aprile. Kiev non è ancora caduta, ma il conteggio dei morti e dei profughi certifica la dimensione della tragedia. L’Occidente della Nato non riesce a sciogliere l’impasse, minacciato esternamente da una escalation nucleare e corroso internamente dalle sue ipocrisie.
Di fronte a questa immobilità, una delegazione composta dai primi ministri dei Paesi dell’UE si ritrova a Istanbul. La città-ponte è ritenuta il luogo simbolico ideale per suggellare una nuova intesa. Eccezionalmente, vengono convocati anche i 7 Paesi che hanno avviato le procedure per entrare in Europa ma non ne fanno ancora parte.
La Delegazione Europea produce e sottoscrive un accordo che si prefigge due obiettivi: 1) porsi come interlocutore autonomo per la risoluzione del conflitto; 2) tutelare la sovranità dell’Ucraina, anche militarmente, se necessario.
Particolarmente convincente la posizione espressa da Finlandia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Albania, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia, Turchia, Bosnia ed Erzegovina, Kosovo: “Regà, la Russia sta qui dietro eh!
Mentre in quella che fu Costantinopoli accade tutto questo, sulle due sponde dell’Atlantico la mossa non passa inosservata a Sleepy Joe e a BoJo the Clown, che si vedono improvvisamente tagliati fuori dalla partita. Una chiamata parte da Washington diretta a Londra: “Ehi Boris, what the fuck!?” E BoJo replica: “I don’t know, mate! We are not european anymore!”
Allora Sleepy Joe va su tutte le furie e chiama Olaf Scholz, intimando un dietrofront atlantista. Scholz, che dopotutto è un tedesco, lo manda teutonicamente a cagare.
Liquidate le ingerenze a stelle e strisce, la delegazione formula la sua proposta: “Caro Vlady, l’Ucraina accetta di non voler entrare nella Nato: si impegna a non farlo per 99 anni! Però vuole stare con noi, non con te, bombarolo maledetto! Ci pensiamo noi a denazificarla, se necessario. Ti conviene accettare perché noi combatteremo al suo fianco come garanti internazionali della sua autonomia. Se non accetti queste cond….
PUTIN: “Ok ok, problema risolto! Cazzo, ci voleva tanto? Va bene, fottetevela voi, basta che mi levate dal cazzo la NATO e torniamo a fare affari!
Fine della storia.
Categorie
Studi e Ricerche

La sindrome della rana bollita

Che cos’è la sindrome della rana bollita? Si tratta di una storiella che circola dalla fine dell’Ottocento e che ha una potente efficacia metaforica nel descrivere la situazione in cui ci troviamo.

La storiella dice più o meno: se si mette una rana in un pentolone d’acqua a temperatura ambiente e si alza la temperatura progressivamente, la rana finirà con l’adeguarsi pian piano, fino a morire bollita. Inversamente, se la stessa rana viene gettata in un pentolone contenente acqua già riscaldata, reagisce provando a saltar fuori immediatamente.

sindrome_rana_bollita
Credit: Jasper Oostland

Solitamente usata per descrivere gli effetti del cambiamento climatico o i meccanismi sociali di assuefazione a condizioni altrimenti inaccettabili, questa storiella si applica molto bene al perdurare del Green Pass nonostante la fine dello Stato di Emergenza.

Il 31 marzo prossimo lo stato di emergenza dovrebbe terminare. Tuttavia, da diversi giorni, si dibatte se sia il caso di sospendere anche il Green Pass o se invece esso debba restare attivo. Il fatto stesso che la questione si ponga è preoccupante: perché se il GP può avere una sua legittimità come dispositivo di uno stato di emergenza, dovrebbe essere completamente inaccettabile che tale legittimità possa persistere in condizioni di normalità.

Per farmi capire meglio, caro lettore e cara lettrice, facciamo un esperimento mentale, come quelli tanto cari ai filosofi della mente. Siamo nel dicembre del 2019, il mondo non conosce gli effetti di una pandemia e le nostre vite proseguono in quella che definiamo normalità. Guardiamo la TV distrattamente, mentre smanettiamo sul nostro telefono e a un certo punto le trasmissioni si interrompono: a reti unificate viene annunciato dal capo del Governo che, dal 1° gennaio, per andare al bar, al cinema, a teatro, a scuola, sull’aereo – e persino per lavorare – servirà un certificato di idoneità sanitaria, chiamato Green Pass, che si può ottenere mediante tampone o vaccinazione.

Se di fronte a questo scenario, caro lettore e cara lettrice, credi che ti saresti sentito a tuo agio, allora puoi vivere serenamente: sei quel tipo di rana a cui la temperatura dell’acqua non importa poi così tanto. Non è necessariamente un male, anzi, sei un tipo di persona estremamente flessibile alle circostanze, il che ti rende, dopotutto, il più adatto.

Se invece, credi che avresti risposto: “Cosa?! Col cavolo! Ma sono impazziti?”, allora sei quel tipo di rana che oggi dovrebbe saltare fuori dall’acqua e scappare via da quel Pentolone-Paese (a quanto pare sempre più solo nelle democrazie Occidentalia) che ti sta cucinando a puntino.

Se, infine, sei quel tipo di persona che nello scenario dell’esperimento mentale avresti reagito prontamente, ma oggi neanche ti accorgi di quanta eccezionalità ci sia nel prolungare il Green Pass oltre lo stato di emergenza, allora, caro lettore e cara lettrice, sei proprio la rana della storiella: non così accomodante da farti imporre una cosa bruscamente, ma non così reazionaria da accorgerti quanto dolcemente la tua normalità stia cambiano in peggio.

Una nota di positività, che viene dalla scienza. Secondo il parere di alcuni esperti, la rana salta fuori se ne ha la possibilità e non si fa fregare dalla lentezza e dall’inesorabilità di un processo, essendo la termoregolazione uno dei meccanismi di base della sopravvivenza. Ma in realtà cosa accada davvero non ha molta importanza, poiché questa storia deve servire come quella che il filosofo Daniel Dennett definisce “pompa di intuizione”, cioè come uno strumento per pensare che ci consenta di cogliere profondamente l’essenza dei problemi.

 

Links utili:

https://en.wikipedia.org/wiki/Boiling_frog

https://www.theatlantic.com/technology/archive/2006/09/the-boiled-frog-myth-stop-the-lying-now/7446/

http://answers.google.com/answers/threadview?id=758865

https://archive.org/details/studiesfrombiol00martgoog/page/384/mode/2up

https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/daniel-c-dennett/strumenti-per-pensare-9788860306548-1540.html

Categorie
Blog Studi e Ricerche

Recensione (volante) di “Documanità. Filosofia del mondo nuovo”

Che i libri di Maurizio Ferraris siano spassosi e originali, è cosa nota. Anche il suo recente “Documanità. Filosofia del mondo nuovo” rispetta la tradizione autoriale, presentandosi come un libro serissimo che però non si prende troppo sul serio e che ci racconta come affrontare le sfide dell’automazione, della documentalità, delle connessioni continue: insomma, del Web.

Siamo in preda a un “attacco isteretico”, per riciclare una battuta di Ferraris. L’isteresi (dal greco hysteron, dopo) è la caratteristica essenziale della documentalità e descrive il processo di sedimentazione materiale prodotta dalle registrazioni. L’attacco isteretico è dovuto alla più performante macchina di registrazione che Homo sapiens abbia mai prodotto: il Web. Che, nella prospettiva documana delineata da Ferraris, non è una (mera) Infosfera (l’insieme delle informazioni), ma una Docusfera (l’insieme delle tracce registrate) che archivia senza sosta ciò che fa la Biosfera (l’insieme degli umani).

isteresi

L’aspetto decisivo della docusfera rispetto all’infosfera è che la stragrande maggioranza delle tracce conservate non è informazione. O perlomeno non è informazione per noi che la produciamo, ma solo per le compagnie informatiche che, raccogliendola e organizzandola, la usano per profilarci. Questa distinzione, che apparirà forse triviale, ci fa capire che a pigiare tasti forsennatamente, a cliccare e a tappare, non ci sono i discepoli di Prometeo, ma gli epigoni di Epimeteo, che, come è noto, non sapeva tenere le mani a posto (e quando le muoveva lo faceva senza pensarci troppo).

Il libro presenta sostanzialmente due tesi, la prima a supporto della seconda.

Tesi 1: ciò che caratterizza Homo sapiens è l’accumulo di cultura materiale basato, appunto, sull’isteresi. (NB: Se questa tesi sembra banale è perché non sto specificando cosa si sacrifica sul suo altare: la centralità del linguaggio per il destino cognitivo del Sapiens). Dall’alba dei tempi noi registriamo frammenti di conoscenza sui materiali più diversi. La conoscenza così iscritta si presenta come memoria depositata sulla materia, che possiamo iterare tutte le volte che vogliamo e che possiamo, soprattutto, alterare, innescando processi di trasformazione simbolica che produrranno nuove registrazioni, in un circolo continuo.

L’aspetto epimeteico di tutta questa faccenda è che spesso le registrazioni del Sapiens vengono prodotte con un fine preciso, ma sortiscono effetti che sono completamente impredicibili, persino (o forse specialmente) da chi le attua. Questo perché, quando usiamo le cose, di solito non obbediamo a nobili intenzioni, ma cerchiamo di soddisfare semplici bisogni. L’essere umano è costitutivamente un imbecille, nel senso che è in-baculum, senza bastone, pertanto si deve munire di protesi e supporti che lo aiutino nel mondo. Che poi il bastone si riveli tossico, distruttivo o non più adatto, poco male: l’imbecille troverà un altro bastone con cui ridurre gli effetti imprevisti del precedente e che ne renda obsolete le problematiche.

Tesi 2: L’isteresi è un processo di capitalizzazione. Come tale può essere tassato e redistribuito, dando luogo a un Webfare che ci riconosca il lavoro continuo e quotidiano che facciamo e che non riconosciamo come tale. Non lo riconosciamo, sebbene talvolta ci sfinisca, perché non somiglia ai soliti lavori che popolano il nostro immaginario, sebbene cominciamo a farlo da appena svegli e smettiamo prima di andare a dormire (nel mezzo, ogni tanto, sospendiamo per fare il lavoro-quello-vero): mandare una email, guardare le storie di Instagram, scegliere una serie in streaming, caricare post (come questo) sulla nostra piattaforma preferita, eccetera.

Di solito lo chiamiamo consumo o intrattenimento; è una pratica che viene sovente descritta come fenomeno di decadimento culturale perché abbrutisce e instupidisce. Mentre però prima il consumo – nonché ciò che lo motivava: le strategie, i gusti, le tendenze, le abitudini e persino i comportamenti che non eravamo in grado di attribuire a noi stessi mentre li attuavamo – non lasciava alcuna traccia, oggi tutto ciò è registrato, analizzato e venduto dalle piattaforme informatiche. La cosa migliore da fare, pertanto, è tassare queste piattaforme e ridistribuire la ricchezza, cioè vedere riconosciuto il lavoro che facciamo per loro mentre crediamo di fare qualcosa per noi.

Il pregio di questo libro è che propone una teoria politico-economica a partire da una constatazione estetica. Non assume un atteggiamento moralizzatore e nichilista, rimproverandoci quanto infime siano le nostre pratiche e puntando il dito sull’inesorabile decadenza dell’Occidente o sulla distorsione della natura umana. Al contrario: a partire dalla constatazione che da migliaia di anni ci esternalizziamo, incasinandoci la vita con questo o quell’aggeggio, Ferraris produce una “filosofia del mondo nuovo” che è conforme alla nostra natura di imbecilli che provano, tra salti e cadute, a esserlo un po’ meno.

 

Links:

Prefazione del libro in open source

Intervista YouTube

Hysteresis by M. Ferraris on Critical Hermeneutics

Categorie
Articoli Blog Studi e Ricerche

Sul Green Pass Vol. II

Oggi si perfeziona un processo iniziato il 6 agosto scorso: il sovradimensionamento del dispositivo Green Pass. Da oggi, per lavorare, devi avere il certificato verde.

Non posso farci nulla, questa cosa proprio non mi va giù. Molti dicono che è giusto, perchè bisogna andare avanti e mettersi tutto alle spalle. Ma se andare avanti vuol dire tapparsi occhi, orecchie e persino il naso, allora forse ci dovremmo fermare un attimo e guardare indietro.

La situazione attuale ha una lunga gestazione, non la si può liquidare senza tenere in conto il processo che ci ha condotti qui. Il risentimento dietro alla battaglia, quella sana, di chi trova il Green Pass sbagliato si radica nell’accumulo di scelleratezze perpetrate dall’inizio della pandemia (dallo Stato e da noi cittadini, sia chiaro). La lacerazione sociale che il nostro Paese sta attraversando non ha precedenti, per il semplice ma fondamentale fatto che non conosce confini ideologici, generazionali, di ceto, di istruzione e nemmeno geografici: giovani e vecchi, destra e sinistra, nord e sud, ricchi e poveri, colti e ignoranti. Dappertutto si trova di tutto. Questo fatto, da solo, meriterebbe un’analisi dedicata vista la sua eccezionalità.

Quali sono queste scelleratezze?

1) Un’idea di salute come sinonimo di sopravvivenza. Questa è la scelleratezza primaria, da cui discendono tutte le altre. Ritenere che “stare bene” voglia dire sopravvivere crea una distorsione clamorosa sulle condotte da seguire. Per carità, la sopravvivenza è centrale per il benessere: era chiaro al cacciatore-raccoglitore che non sapeva se avrebbe rivisto un altro tramonto o i suoi nipotini alla veneranda età di 35 anni. Ma per noi è un po’ diverso: la cultura ci impone di articolare un ventaglio comportamentale molto più ampio di quello che abbiamo messo in atto nel primo lockdown, quando – proprio in nome della sopravvivenza – ci siamo chiusi in casa col divieto assoluto di lasciare l’abitazione. E il patimento psichico e l’isolamento, vissuto drammaticamente da moltissimi individui, molti dei quali giovani o giovanissimi, dove li mettiamo? Fanno parte della salute o, siccome non intaccano la sopravvivenza, possono essere messi tra parentesi? È in ossequio a questa idea di fondo che sembra normale a molti, oggi, subordinare il diritto al lavoro a quello della salute-come-sopravvivenza. Viceversa, il Green Pass appare un provvedimento eccessivo a chi non ha mai accettato l’analogia salute=sopravvivenza.

2) Un abuso di comunicazione, di natura smaccatamente propagandistica, da parte delle istituzioni e dei gruppi editoriali. Non parlo (solo) dei social, ma dell’agenda setting dei media e della comunicazione politica. Un intossicamento informazionale parallelo all’infezione reale che ha indotto panico, frustrazione e rabbia a fronte di un sostanziale impoverimento informativo reale. Esempio: il rituale di esposizione dei dati messo in atto dal governo Conte e amplificato dai media, che tanto rassicurava parte della popolazione, ha agito come un vero e proprio pharmakon: mediante la somministrazione ripetuta ha creato un bisogno, il cui soddisfacimento ha generato dipendenza emotiva ed esistenziale.

3) Un occultamento capzioso dei limiti della scienza. Il continuo appellarsi ai dati e alle evidenze ha perso legittimità dal momento che i suddetti dati e le suddette evidenze sono cambiate molte volte, spesso generando scenari antitetici rispetto ai precedenti (l’esempio di AstraZeneca è il più lampante). Ovviamente questo è il modo fallibile in cui la scienza funziona, e nessuno di solito si aspetta che la scienza sia perfetta. Tuttavia, per molteplici ragioni, si è voluta offrire l’immagine di una scienza superiore a tutto, Risultato? La nascita di un’idolatria scientista e l’annientamento dell’autorità politica che, nel caso in questione, stabilisce che bisogna avere un certificato per lavorare.

4) La riduzione dell’interlocutore a nemico pubblico o a caricatura. All’inizio era il corridore: quell’irresponsabile individuo che, invece di pensare al bene pubblico, pretendeva di concedersi il lusso di una corsetta. Questo punto, in combinazione al punto 1, ha innescato un rovesciamento paradossale, per cui stare in casa chiusi fa bene ed è, soprattutto, moralmente lodevole. Mentre uscire a prendere aria è pericoloso per la salute. Trasposto all’oggi, chi si ostina a confinare il disagio sociale sulla questione del Green Pass o del vaccino alla generica categoria dei “NoVax” (preferibilmente fascisti), semplicemente sta mentendo. Riduce l’altro a una macchietta, a un cretino o, negli scenari più strumentalizzati, a un criminale. Il problema che ne deriva è la mancanza di uno spazio di discussione, nel cui vuoto si inasprisce la lacerazione sociale, secondo un circolo vizioso che radicalizza le posizioni. “NoVax” e “Covidioti” sono le due miserabili definizioni che definiscono i due archetipi polari soggetti a questa riduzione.

Se lo Stato avesse avuto a cuore la salute dei suoi cittadini, la salute quella vera e non la versione striminzita generata dall’emergenza; se avesse ammesso che gli errori ci sono stati; se avesse deciso di guidare il processo invece di farselo dettare, scaricando le responsabilità verso il basso (non ti obbligo a vaccinarti, ma invece si); se avesse, insomma, deciso di decidere in autonomia e non in eteronomia, avrebbe creato condizioni per una gestione pandemica più solidale e attenta alle profonde spaccature sociali che stanno interessando il nostro Paese.

Categorie
Blog Studi e Ricerche

Sul Green Pass

Ma perché non riusciamo a parlare di Green Pass (senza ammazzarci a colpi di ideologia)?

Non c’è niente da fare, dopo quasi un mese dall’adozione “allargata” del Green Pass, il Paese si divide in due fazioni, favorevoli e contrari. Il che non è male, anzi è normale! Il male è che manca la discussione tra queste due fazioni. Più precisamente, è molto raro che – sia nelle chiacchiere private, sia nelle produzioni documentali (1) più influenti – ci si concentri sui contenuti. Piuttosto, i contenuti latitano occultati da prese di posizione di stampo ideologico o affettivo: si tratta di un problema molto serio per una democrazia e costituisce di per sé uno dei nodi più urgenti da affrontare sul piano civile e politico.

Precisiamo subito una cosa: essere contro il Green Pass non implica essere contro il vaccino. Questo per disinnescare un comune accostamento, che esiste, ma che non si riduce a questo. Premesso ciò, ci sono sostanzialmente due categorie di persone che sono contrarie all’applicazione del Green Pass: coloro che hanno paura di vaccinarsi; coloro che credono sia sbagliato adottare un dispositivo così pervasivo. Ritengo che entrambe le categorie debbano essere legittimamente riconosciute.

Talvolta ho sentito fare dei paragoni tra vaccinati e non vaccinati in cui i primi sarebbero quelli che pagano, i secondi gli scrocconi (2). È vero, i non vaccinati producono un costo sociale, così come lo producono i vaccini, del resto. Ma io trovo che sia degno di uno stato civile e che ha a cuore il suo popolo equiparare la somministrazione del vaccino alla gratuità (o almeno la riduzione del costo) del tampone. Che problema c’è? È davvero una questione di denaro? Lo Stato Italiano non può pagare tamponi per i non vaccinati?
Sull’opportunità di affrontare il costo, ovvero sul fatto di considerare i non vaccinati “degni” di un provvedimento simile, si gioca la partita politica. Per me lo sono! Tale dignità proviene dall’ammissione, da parte della politica, di una serie di goffi errori di gestione – e, cosa niente affatto da sottovalutare, di comunicazione – che sono stati sotto gli occhi di tutti.

Per esempio: Astrazeneca, il vaccino che io stesso ho fatto, dopo essere stato “consigliato” alle più disparate categorie di persone (over, under, uomini, donne), oggi in Italia non si può fare più. Come rassicuri una persona quando la campagna di vaccinazione è un continuo prodursi di cambi di rotta, incongruenze e paternalismi alimentati a colpi di meme? Semplice, non lo fai. Per avere paura basta il sospetto che qualcosa non vada, non serve la certezza che qualcosa non vada. E purtroppo invece che fugare dubbi, è stata adottata la linea dura, cioè quella che prevede che il cittadino sia un irresponsabile. Si è ritenuto che la soluzione fosse rafforzare la coercizione e rimuovere collettivamente tutte le perplessità, che è il modo più sicuro per allargare la distanza tra società e istituzione e inasprire il conflitto.  Se tu hai paura dell’altezza – una paura che magari sai essere eccessiva, ma tant’è – quanto credi che sia utile che qualcuno ti dica, proprio mentre ti trovi su un precipizio: “ma dai, buttati, non è niente”; oppure, ancora peggio: “sei veramente una merda ad avere paura dell’altezza, ma non ci pensi a chi vive più in alto di te?”; oppure, infine “se non vuoi buttarti per te, buttati per il prossimo”.

La seconda categoria è molto più articolata: si passa da posizioni semplicemente ridicole ad altissime questioni di principio. Lo spettro è ampio: il carattere discriminatorio del Green Pass, nonché la sua incostituzionalità; le perplessità sull’intera gestione della pandemia; la tutela dei diritti del lavoro e della libertà personale; le posizioni politico-economiche critiche sulle modalità di acquisto e distribuzione dei vaccini; la sfiducia verso una classe dirigente che non obbliga nella forma ma lo fa nella sostanza.
Questa categoria di persone (tra le quali mi ci metto pure io), non teme il vaccino – anzi, spesso è composta da persone plurivaccinate con fiale diverse servite “on the rocks” –, ma prova a sollevare dubbi su una adozione così pervasiva e unica in Europa (3) del Green Pass.

La cosa davvero sorprendente rispetto a queste persone è l’atteggiamento reazionario della controparte: non si risponde col dialogo, ma con il rifiuto all’argomentazione; non viene nemmeno paventata la possibilità che ci sia spazio per il confronto. Tutt’altro. Come contro i timorosi, l’atteggiamento de “I Giusti” è quello denigratorio e arrogante di chi crede di essere, in una parola, superiore: più intelligente, più colto, più coraggioso, più altruista, più “esperto”, più lungimirante, più assennato, più responsabile, più “più”. Di contro, “I novax” – brutale riduzione categoriale adottata da I Giusti per etichettare tutti gli altri – sono scemi, egoisti, narcisisti, gomblottisti, eccetera.

La mancanza di un vero dialogo è motivata anche dalla folta presenza di un’altra categoria di persone. A “I Giusti” infatti si aggiungono anche “Gli spaesati”, ovvero coloro che finché la dittatura sanitaria era una roba da libri e circolava nelle accademie di tutto il mondo, allora era cool, ma ora che la dittatura sanitaria è argomento dell’estrema destra, molti intellettuali non se la sentono di dire cose che possono essere strumentalizzate da facinorosi individui. Questa consapevolezza – ovvero l’inedita coalescenza di ideologie tra loro solitamente distanti – comincia a emergere (4): ma ho la sensazione che il senso di inadeguatezza di chi si ritrova con inediti “compagni-camerata”abbia avuto come affetto il disarmo intellettuale.

Il mio è dunque un invito al dialogo e alla parificazione sociale. Inoltre, è un invito, rivolto a tutti quanti, a non cadere in due fallacie dell’argomentazione che mi sembra ricorrano spessissimo. Sono tratte da un bel libro illustrato che ho comprato per mia figlia: Argomentazioni errate, di Ali Almossawi (5).

La prima è la fallacia dell’uomo di paglia: “Costruire un uomo di paglia significa trasformare intenzionalmente l’argomento dell’interlocutore in caricatura, in modo da attaccare quella caricatura invece dell’argomento reale. Rappresentare, citare e interpretare in modo scorretto e semplificare eccessivamente sono tutti modi con cui si commette questa fallacia. In genere l’argomento “uomo di paglia” è più assurdo di quello reale. Ciò ne fa un bersaglio più facile da attaccare e può eventualmente spingere l’interlocutore a difendere l’argomento più ridicolo invece di quello originario.”

uomo_di_paglia

La seconda è la fallacia genetica: “La genesi di un argomento o di chi lo avanza non coincide in alcun modo sulla sua correttezza. Si commette una fallacia genetica quando si scredita o si difende un argomento esclusivamente in funzione della sua origine. […] Quando si è affezionati alla genesi di un’idea, non è sempre facile ignorare la prima nel valutare la seconda.”

O, il che è lo stesso, quando si è ostili (a torto ma anche a ragione) nei confronti di chi propugna una certa idea, non si valuta l’idea in sé, ma il fatto che provenga da qualcuno che non merita fiducia.

fallacia_genetica

Che fare dunque? In generale, abbassare i toni, smetterla di seminare odio e di trattare l’altro come il nemico (da entrambe le parti). Una soluzione semplice sta nel consentire concretamente la doppia chance, con interventi economici che lo consentano: vaccinarsi o tamponarsi. Questo, paradossalmente, potrebbe avere (il condizionale è obbligatorio) un effetto positivo di ritorno, se accompagnato da una coerente campagna di comunicazione. In alternativa prendere delle decisioni unilaterali come la vaccinazione obbligatoria, se si ritiene che sia giusta: almeno così il decisore si assume delle responsabilità che fino a oggi ha dribblato.

Quel che sia, ma non la guerra civile.

 

Links:

(1) M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari.

(2) https://www.huffingtonpost.it/entry/il-pasto-gratis-dei-no-vax_it_6128a94fe4b0231e369a71d0

(3) https://www.lindipendente.online/2021/09/16/in-italia-il-green-pass-piu-restrittivo-deuropa-come-funziona-negli-altri-paesi/

(4) https://www.glistatigenerali.com/filosofia_sanita/alt-vax-il-suicidio-dello-spirito-critico/

(5) A. Assawi, Argomentazioni errate, Nessun Dogma, Roma

Categorie
#GURRU Blog

La Cannabis che non “tira”

Nonostante le (numerose e varie) evidenze e il fatto che molte persone sarebbero d’accordo alla sua legalizzazione, la battaglia pro Cannabis stenta a fare breccia nel cuore degli italiani.

Perché? Lasciamo da parte i contrari alla legalizzazione e concentriamoci esclusivamente sui favorevoli. Secondo un sondaggio Eurispes (link in basso), c’è un crescente consenso sulla legalizzazione della Cannabis, ma non tale da cambiare la percezione del fenomeno nella cultura di massa.

Allora perché?

Credo che questo dipenda da tre sentimenti, solitamente presenti nelle persone che sarebbero favorevoli in linea di principio (siano essi fumatori o no), ma non abbastanza da farne una battaglia civile: indifferenza, timore, vergogna.

Indifferenza. Anche chi è favorevole alla Cannabis ma non la consuma, non crede che la sua legalizzazione sia davvero importante. Diciamo pure che la cosa lo/la riguarda superficialmente, perché crede che non abbia ricadute concrete nella sua vita. Per cui anche se incline a votare “si” a un sondaggio, molto difficilmente si spinge oltre o esercita pressione sull’opinione pubblica.

Timore. Molte persone temono di esporsi, perché l’uso della Cannabis si configura come un reato con conseguenze potenzialmente penali. Tali conseguenze, oltre a macchiare la fedina, possono minacciare la propria attività lavorativa o essere di impedimento per un’assunzione.

Vergogna. Forse il problema più grosso: vergognarsi del proprio stato di consumatori. Lo stigma di sostanza tremenda che la Cannabis (aka Marijuana) si porta dietro, che ha prodotto la classica concezione del fumatore come criminale perdigiorno buono a nulla, costringe molti consumatori ad autocensurarsi. Per cui se ti fai un cicchetto, l’ape, un buon bicchiere di bianco ghiacciato, allora sei figo e hai un sacco di occasioni per far vedere quanto lo sei; se invece ti fai le canne, sei un tossico che sta buttando la sua vita e faresti meglio a nasconderti come un ladro.

Che si può fare?

Se stai leggendo questo post e sei arrivato fin qui, domandati se lo condividi oppure no. Ma soprattutto, domandati il perché. Ormai da qualche tempo, il movimento #MeglioLegale sta promuovendo una campagna di disobbedienza civile per provare cambiare le cose. Tra le tantissime inziative, una in particolare mi sembra che vada nella direzione di abbattere il muro di autocensura dentro cui spesso il fumatore o la fumatrice si chiude. Mi sembra un’ottima idea, per cui ecco la mia storia: mi chiamo Francesco, insegno, smanetto al computer, sono un papà, faccio attività fisica e fumo la Cannabis.

Non ne sono indifferente perché è una pianta straordinaria che: non ha mai ucciso nessuno in migliaia di anni di utilizzo, cura le persone, pulisce l’ambiente, potrebbe far arricchire lo Stato sottraendo soldi al narcotraffico. Non temo ritorsioni legali, soprattutto da quando la Corte di cassazione, a sezioni unite, ha sdoganato la coltivazione domestica. Ma soprattutto non mi vergogno e cerco il confronto, perché mi pare il primo, fondamentale passo per l’esercizio del diritto civile.

Legalizzare non vuol dire incitare le persone a fumare; anzi in un certo senso vuol dire il contrario: vuol dire “fare cultura” della Cannabis, rendendola disponibile a chi lo desidera ma sottraendola tassativamente ai minorenni, per esempio. Vuol dire controllarne la qualità e accaparrarsi i profitti. Chi vuole la Cannabis legale non vuole un paradiso hippie nel quale oziare senza tempo, ma un mondo più ricco, equo e, perché no, rilassato e divertito.

Links utili per farsi un’idea, approfondire e valutare da sé:

[Il sondaggio Eurispes]

[Un articolo sulla sentenza della Corte di Cassazione]

[La pagina FB di Meglio Legale]

[Il sito Cannabis for Future]

[Il magazine DolceVita]

[Il podcast di Stupefatti]

Categorie
Blog Studi e Ricerche

Un lungo pendio scivoloso dal lockdown all’App

In un passaggio di Infinite Jest, David Foster Wallace fa raccontare a uno dei suoi personaggi una storia, che recita così: «C’è un vecchio pesce saggio e baffuto che si avvicina nuotando a tre pesci giovani e fa: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?” e nuota via; i tre pesci giovani lo osservano allontanarsi e si guardano e fanno: “Che cazzo è l’acqua?” e nuotano via.».

Questa storiella, ispirata molto probabilmente da una delle tante sortite di Marshall McLuhan, è perfetta per far capire quanto l’essere immersi in un ambiente (mediale) produca come effetto la sua sparizione. I pesci non sanno niente dell’acqua così come il cacciatore-raccoglitore non sapeva niente dell’ossigeno e noi oggi, mutatis mutandis, sappiamo poco o nulla di cosa implichi sguazzare allegramente nell’ambiente digitale. 

Mi spiego.

fish-did-not-discover-water

 

Da quando l’emergenza da Coronavirus è iniziata, sono stato tra quelli che hanno mal digerito il “lockdown”. Non che sia stato facile per gli altri, intendiamoci, ma mi ha da subito impressionato la facilità con cui abbiamo smesso di pensare e ci siamo urlati addosso di stare a casa e di rinunciare ad aspetti elementari della nostra vita quotidiana. Non si è trattato solo di tutela della salute, ma di attacco feroce alla ragione in nome della sicurezza. Nella pratica ciò si è tradotto in molte circostanze: ho assistito alla gogna mediatica del “Corridore”, ormai vero e proprio archetipo dell’irresponsabile; ho visto sub venire multati; droni volteggiare; elicotteri perlustrare spiagge deserte; e molte altre circostanze che non saprei se definire allucinanti o grottesche. Ma soprattutto ho visto, per quel che ogni cittadino può vedere all’interno della propria infosfera (Whatsapp, FB, notiziari, e quello che vi pare), l’ascesa direi pressoché incontrastata dell’hashtag #IoRestoACasa, sintesi del monopensiero paternalista, totalmente impermeabile a qualunque forma di critica o valutazione.

Quando si è cominciato a parlare di App, lo scenario sembrava da perfetto romanzo orwelliano. Inizialmente la cosa mi ha urtato istintivamente, come un’ulteriore forma di restrizione. Ma poi, dopo aver letto un articolo e aver visto accadere alcune cose, il dubbio si è insinuato in me e ho pian piano cambiato atteggiamento. Ho cioè cominciato a notare una sorprendente e inaspettata analogia nel modo di ragionare tra coloro che invocavano senza mezzi termini la chiusura totale e quelli che non oggi non vogliono l’App, perché vi scorgono una pericolosa forma di controllo e di violazione della privacy. Mi ha colpito, insomma, questa sorta di parallelismo tra la forma del ragionamento di quelli che acclamavano di stare-chiusi-e-basta in casa e quelli che oggi ci mettono in guardia dai pericoli dell’App-come-dittatura.

Ma cos’è che accomuna queste due forme di ragionamento? Il fatto che entrambe non si fondano sulla valutazione di variabili complesse, ma su posizioni sostanzialmente ideologiche o che sorgono in risposta a reazioni emotive. Non si esce perché-è-giusto-così; non si può usare l’App perché-minaccia-la-nostra-privacy. Entrambe le posizioni sono, per così dire, refrattarie alle circostanze attuali, inattaccabili perché si forgiano a partire da dogmi o stati d’animo e non da valutazioni di merito. 

Lasciamo da parte la libertà di spostamento e concentriamoci sul controllo dei dati. Ci sono due modi, a mio avviso, per affrontare la discussione sull’App: il primo è valutare lo scenario complesso che si presenta ed esercitare un pensiero critico basato sulla costante e faticosa negoziazione tra sicurezza e riservatezza; il secondo è chiudere la discussione prima ancora di iniziarla, o appoggiandosi a precedenti storici che corroborano tesi futuriste o rappresentando scenari ipotetici che ci farebbero prevedere cosa accadrà.

Per il primo modo le questioni connesse alla piena accessibilità del codice (open source), al tipo di tecnologia impiegata (Bluetooth vs GPS), al tipo di immagazzinamento dei dati (centralizzato vs decentralizzato), all’integrazione con gli altri Paesi Europei e con il progetto avviato da Google e Apple, alla circoscrizione temporale del fenomeno, sono tutte fondamentali e da mettere al centro della discussione; devono inoltre essere esplorate da diverse prospettive, da persone con diverse competenze (informatiche, antropologiche, psicologiche, filosofiche, mediologiche e politiche). Un esempio in tal senso è offerto in questo articolo. Per il secondo modo, tutto questo non si dà nemmeno in prima istanza.

Qui non vorrei dare una soluzione per cui si debba o non si debba scaricare un’App – atteggiamento in linea con l’antidogmatismo che difendo – ma fornire alcuni spunti di metodo per non finire come i pesciolini della storiella iniziale e regolare invece il rapporto tra ambiente naturale e ambiente mediale, tra vita organica e identità digitale. La ricetta, in fondo, è estremamente semplice e si fonda su due parole: fiducia e consapevolezza.

Fiducia: se come cittadino pretendo di essere trattato come tale e non come una scimmia ammaestrata, devo a mia volta trattare lo Stato come una Repubblica democratica e non come una dittatura. Si tratta di un principio di reciprocità dal quale, per onestà intellettuale, sento di non potermi sottrarre. Non importa che questa fiducia sia stata clamorosamente disattesa finora: inseguire corridori sulla spiaggia non suggerisce, perlomeno a me, l’idea di uno Stato che affronta con razionalità un’emergenza, ma uno Stato che applica un modello ottuso senza valutare le cose adeguatamente. Ma il patto di fiducia è sempre condizione essenziale in un qualsiasi negoziato civile. La fiducia verso le istituzioni va dunque alimentata e non minata, così come va sempre pretesa anche se non sempre dimostriamo di essercela guadagnata.

Lo stesso vale per l’atteggiamento nei confronti dei nostri concittadini. Considerazioni del tipo se-lo-fa-uno-lo-fanno-tutti, oppure l’italiano-è-incivile-e-non-ci-si-può-fidare, non solo sono completamente infondate da un punto di vista logico, ma fungono da causa di loro stesse: infatti, se io mi figuro uno Stato che mi inchioda in casa contro ogni evidenza sullo stare all’aria aperta e mi figuro il mio concittadino come un furbetto che non aspetta altro che avere un’occasione per comportarsi male, come potrò mai agire nell’interesse della collettività? Sarò frustrato e incazzato, invece che responsabile e comprensivo. Sarò indotto a smettere di pensare annullandomi sul divano e su Internet (se ce li ho, ovviamente) o a trasformarmi nel furbetto che tanto temo per non soccombere alla frustrazione.

Consapevolezza: La fiducia da sola non basta, dopotutto siamo cittadini e non bambini. Se un bambino si può affidare senza preoccuparsi di altro, un cittadino deve sempre essere consapevole e informato. Prima di tutto dobbiamo esigere che l’App sia la migliore App possibile, pretendendo che soddisfi dei requisiti, tecnici e di principio, che reputiamo non negoziabili. Per quanto mi riguarda questi requisiti sono la piena accessibilità del codice e la limitazione temporale del suo impiego, ma potrebbero essercene anche altri che scaturiscono da un confronto serrato e continuo tra le parti.

L’aspetto temporale – ovvero il fatto che non ce ne libereremo mai qualora dovesse entrare in funzionamento – è certamente il più importante ed è quello che di solito incute più timore. L’argomento di chi teme che ciò accada è grossomodo il seguente: l’eccezione-sorta-in-emergenza-diventa-la-norma. Ecco il parallelismo della forma di ragionamento con la chiusura ottusa nelle case. Individuare un principio di funzionamento come ipotesi (perché no, plausibile) e istituirlo come condizione ineluttabile. Di solito segue l’esposizione di casi del passato che supportano tale ipotesi e/o la rappresentazione di stati futuri che ci fanno toccare con mano i rischi che corriamo (premediazione).

La privacy è, naturalmente, l’oggetto della contesa. E il controllo che dalla sua violazione verrebbe innescato e legittimato. Io ci tengo alla mia privacy, non voglio che qualcun altro ficchi il naso nelle mie pratiche quotidiane e mi tenga d’occhio. A questa risposta di solito si fa notare, molto sommessamente, che la privacy è un concetto liquido e relativo, ben illustrato dalla storiella dei pesci raccontata all’inizio. Infatti, di quale privacy si sta parlando? Quella dei gusti? Quella delle idee politiche? Quella degli spostamenti? Quella della rete delle amicizie? Quella dei rituali domestici? Quella dell’orientamento sessuale? Quella delle cartelle cliniche? Quella del cloud così-è-tutto-sincronizzato? Quella delle conversazioni in chat? Quella della carta di credito strisciata qui e lì? Quella dell’orologio che misura il battito? Noi siamo già dati, noi siamo già informazione in vendita. Pertanto inneggiare astrattamente, senza-se-e-senza-ma all’ideologia della riservatezza è ingenuo nel migliore dei casi e disonesto nel peggiore. 

Al che i più maliziosi, con un guizzo, rispondono: che c’entra, in quel caso io-ho-dato-il-consenso. Oppure, che c’entra: un conto è dare i nostri dati a delle multinazionali americane che sono cool e li proteggono (Cambridge Analytica e i vari data leaks, a quanto pare, non sono serviti a scalfire questa idea) altra cosa è darli allo Stato Italiano che può limitare i miei diritti e agire, tramite la polizia, sulle mie libertà. E via col pendio scivoloso, per cui, nel giro di un anno o più, saremo ridotti in stato di Sorveglianza Perpetua. Amen. 

Perché dico che il concetto di privacy è liquido e relativo e che dobbiamo necessariamente essere consapevoli di questo fatto? Perché la duplicazione dell’individuo in corpo organico e identità mediale è un problema che precede, e non di poco, le circostanze attuali. Come i giovani pesciolini nell’acqua siamo nati ciechi rispetto alla condizione di esternalizzazione che le tecnologie di duplicazione della realtà hanno inaugurato. Quando fu inventata la fotografia – la prima tecnologia che riproduceva la realtà bypassando l’interveno cretivo umano – le reazioni furono delle più diverse e coprirono tutto lo spettro emotivo. Esaltazione entusiasta e terribile timore accompagnarono l’ascesa dell’immagine tecnica nella Parigi dell’Ottocento: per la prima volta nella storia dell’umanità era possibile conservare un’immagine riflessa di sé, un doppio speculare che sarebbe rimasto depositato su un supporto, sfuggendo allo spazio e al tempo.

La propria faccia divenne merce di scambio perché su di essa si sarebbe perso, per sempre, il controllo esclusivo: con la fotografia abbiamo perso la proprietà della visibilità del nostro corpo. Ciò avrebbe comportato una rivoluzione copernicana nelle tecniche del controllo. E così fu, infatti: Alphonse Bertillon a Parigi e le “gemelle” del commissario Ellero crearono lo standard tuttora in uso della fotografia segnaletica fronte-profilo. Se questo sia stato un bene o un male, lo lascio al vostro giudizio. La notizia che vorrei sottolineare, però, è che non tutto ciò che in quel periodo sembrava giusto, necessario, ortodosso, indispensabile e conseguito nei fatti e nelle pratiche è sopravvissuto fino ai giorni nostri. La fisiognomica, per esempio, ovvero l’idea che i tratti somatici siano un’indicazione diretta del comportamento (criminale) umano, conobbe una stagione di straordinaria fioritura e di accreditamento scientifico di livello europeo, per poi essere bollata come pseudoscienza.

In questo consiste la liquidità e la relatività del concetto di privacy. Per molti parigini del Diciannovesimo secolo era scandalosamente grave e pericoloso ricorrere alla fotografia. Per molti altri, invece, era estremamente intrigante. Queste forze si contrapposero e forgiarono il nuovo universo mediale esternalizzante che ne scaturì. Da allora, come sappiamo, molte altre tecnologie della duplicazione sono subentrate. Se ci focalizziamo sulla singola App, se facciamo convergere tutte le nostre risorse intellettuali su un unico oggetto-processo, perdiamo di vista completamente il mare in cui siamo immersi. Questo esercizio della consapevolezza deve costantemente guidare il nostro giudizio critico nella valutazione delle circostanze mediali. Non siamo più solo corpi che vivono nello spazio, siamo anche avatar che circolano nel mare elettrico.

Rigettare l’impiego di un’App sulla base di motivazioni che pretendono di isolarla dal contesto mediale significa fare come i pesciolini che non sanno cosa sia l’acqua. Perché se riteniamo che avere accesso all’informazione sia un diritto, che interagire tramite interfacce con altri esseri umani sia piacevole o anche solo possibile, o che osservare o addirittura influenzare il mondo dalla propria poltrona sia una conquista, allora dobbiamo essere disposti e negoziare quello spazio adeguandoci alle pressioni che esercita. Attenzione però: adeguarsi significa farsi pari, non sottomettersi. Significa relazionarsi col proprio ambiente e divenirne consapevoli percettivamente e dunque cognitivamente, per poi, solo allora, agire politicamente.

Certo, l’alternativa c’è: ed è quella del pesciolino che, stanco di adeguarsi all’acqua, cominciò a desiderare l’aria…

Categorie
Blog Studi e Ricerche

Black Mirror 4 – La (fanta)scienza perduta

Gli schermi sono neri, di nuovo. La quarta stagione di Black Mirror è uscita giusto in tempo per dire addio al vecchio anno e per dare il benvenuto al nuovo, con la promessa di una intensa overdose distopica. Questa quarta stagione propone ancora una volta sei episodi, scritti tutti dall’ideatore Charlie Brooker (tranne il primo, frutto della collaborazione con William Bridges), mentre la direzione è stata affidata sempre a registi diversi. Le puntate hanno durata differente, espediente efficace ereditato dalla stagione precedente e che ha garantito un maggiore impatto diegetico, passando dai citazionisti 76 minuti di USS Callister agli autoriali 41 minuti di Metalhead. Il tema generale rimane, ovviamente, sempre lo stesso: quali sono gli effetti delle tecnologie sulle nostre vite? Le risposte fornite dalla stagione la dividono tematicamente in due: delle sei puntate, tre concernono l’argomento del mind upload, ovvero della possibilità di trasferire la coscienza umana altrove (altri corpi e/o altri supporti); mentre altre tre possono essere collocate – con qualche riduzione interpretativa – sotto la categoria della visione protesica, cioè la possibilità di moltiplicare in vario modo le occasioni del visibile. Si tratta di una bipartizione arbitraria, non esplicitamente riferita dagli autori, che consente una minima categorizzazione tematica.

USS Callister (4×01) apre la stagione e la tematica: un geniale programmatore di software di realtà virtuale totalmente immersiva, Robert Daly, frustrato nella vita reale da un socio arrogante che non ne apprezza le qualità, incanala il suo odio verso copie digitali di colleghi, riprodotte in un ambiente digitale tramite scansione del DNA. In questa cosmogonia digitale da lui creata, il Capitano Daly è signore assoluto, depriva i suoi avatar degli organi genitali e li obbliga a una esistenza infinita senza possibilità di fuga, nemmeno dalla vita stessa.

Continua la lettura su Fata Morgana Web…

Categorie
Area dello stretto Blog

L’Area dello stretto: che cos’è?

L’area dello stretto: che cos’è?

Chi mi conosce da un po’ sa che ho una fissazione piuttosto marcata con l’Area dello stretto. L’area dello stretto è un’area geografica che include lo Stretto di Messina e altre zone limitrofe della costa calabrese e siciliana. La mia fissazione deriva principalmente dal fatto che, da calabrese che vive a Messina, attraverso lo stretto parecchie volte e lo vedo dal mio balcone ogni giorno…

Il fatto di attraversarlo e vederlo non è di per sé sufficiente a nutrire la mia fissazione: il motivo principale per cui ho deciso di parlarne, di dedicarci addirittura un blog, è perchè credo che l’area dello stretto sia un’area dall’incredbile fascino paesaggistico e possegga un enorme potenziale di crescita economica e sociale. Lo scopo di questo blog, quindi, è innanzitutto quello di presentare l’area dello stretto, parlandone. E poi quello di raccogliere idee, documenti, ricerche, visioni.

area dello s

Da un punto di vista prettamente geografico, il cuore dell’area è costituito dalle aree metropolitane di Reggio Calabria e Messina, ma una visione più allargata può legittimamente includere  le isole Eolie e l’area del Catanese per quanto riguarda la Sicilia, e il versante Jonico meridionale fin su a capo Vaticano per quanto riguarda la Calabria.

Delle possibilità connesse allo sviluppo di quest’area se ne parla da circa 50 anni, ma senza sostanziali risultati. A dirla tutta, negli ultimi quindici anni la situazione dei trasporti, a mio avviso la principale risorsa di crescita territoriale, è peggiorata significativamente. A tal proposito, sento di dover sfatare un mito: area dello stretto non è sinonimo di ponte sullo stretto. Si può avere un’area integrata senza necessariamente costruirci un ponte, così come è vero, però, che si può costruire qualcosa senza devastare il territorio. Un distretto urbano di circa 500.000 persone, accomunate dalla stessa appartenenza territoriale, ma divise dalle rispettive retoriche regionali, aspetta solo di essere valorizzato, integrandosi in una visione politica, economica e sociale.

Bibliografia:

Iosè Gambino, Michele Limosani, L’area metropolitana dello stretto, una grande opportunità per lo sviluppo e il lavoro, in Echi dalla Sicilia, a cura di C. Polto, Pàtron Editore, Bologna 2015.