In un passaggio di Infinite Jest, David Foster Wallace fa raccontare a uno dei suoi personaggi una storia, che recita così: «C’è un vecchio pesce saggio e baffuto che si avvicina nuotando a tre pesci giovani e fa: “Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?” e nuota via; i tre pesci giovani lo osservano allontanarsi e si guardano e fanno: “Che cazzo è l’acqua?” e nuotano via.».
Questa storiella, ispirata molto probabilmente da una delle tante sortite di Marshall McLuhan, è perfetta per far capire quanto l’essere immersi in un ambiente (mediale) produca come effetto la sua sparizione. I pesci non sanno niente dell’acqua così come il cacciatore-raccoglitore non sapeva niente dell’ossigeno e noi oggi, mutatis mutandis, sappiamo poco o nulla di cosa implichi sguazzare allegramente nell’ambiente digitale.
Mi spiego.
Da quando l’emergenza da Coronavirus è iniziata, sono stato tra quelli che hanno mal digerito il “lockdown”. Non che sia stato facile per gli altri, intendiamoci, ma mi ha da subito impressionato la facilità con cui abbiamo smesso di pensare e ci siamo urlati addosso di stare a casa e di rinunciare ad aspetti elementari della nostra vita quotidiana. Non si è trattato solo di tutela della salute, ma di attacco feroce alla ragione in nome della sicurezza. Nella pratica ciò si è tradotto in molte circostanze: ho assistito alla gogna mediatica del “Corridore”, ormai vero e proprio archetipo dell’irresponsabile; ho visto sub venire multati; droni volteggiare; elicotteri perlustrare spiagge deserte; e molte altre circostanze che non saprei se definire allucinanti o grottesche. Ma soprattutto ho visto, per quel che ogni cittadino può vedere all’interno della propria infosfera (Whatsapp, FB, notiziari, e quello che vi pare), l’ascesa direi pressoché incontrastata dell’hashtag #IoRestoACasa, sintesi del monopensiero paternalista, totalmente impermeabile a qualunque forma di critica o valutazione.
Quando si è cominciato a parlare di App, lo scenario sembrava da perfetto romanzo orwelliano. Inizialmente la cosa mi ha urtato istintivamente, come un’ulteriore forma di restrizione. Ma poi, dopo aver letto un articolo e aver visto accadere alcune cose, il dubbio si è insinuato in me e ho pian piano cambiato atteggiamento. Ho cioè cominciato a notare una sorprendente e inaspettata analogia nel modo di ragionare tra coloro che invocavano senza mezzi termini la chiusura totale e quelli che non oggi non vogliono l’App, perché vi scorgono una pericolosa forma di controllo e di violazione della privacy. Mi ha colpito, insomma, questa sorta di parallelismo tra la forma del ragionamento di quelli che acclamavano di stare-chiusi-e-basta in casa e quelli che oggi ci mettono in guardia dai pericoli dell’App-come-dittatura.
Ma cos’è che accomuna queste due forme di ragionamento? Il fatto che entrambe non si fondano sulla valutazione di variabili complesse, ma su posizioni sostanzialmente ideologiche o che sorgono in risposta a reazioni emotive. Non si esce perché-è-giusto-così; non si può usare l’App perché-minaccia-la-nostra-privacy. Entrambe le posizioni sono, per così dire, refrattarie alle circostanze attuali, inattaccabili perché si forgiano a partire da dogmi o stati d’animo e non da valutazioni di merito.
Lasciamo da parte la libertà di spostamento e concentriamoci sul controllo dei dati. Ci sono due modi, a mio avviso, per affrontare la discussione sull’App: il primo è valutare lo scenario complesso che si presenta ed esercitare un pensiero critico basato sulla costante e faticosa negoziazione tra sicurezza e riservatezza; il secondo è chiudere la discussione prima ancora di iniziarla, o appoggiandosi a precedenti storici che corroborano tesi futuriste o rappresentando scenari ipotetici che ci farebbero prevedere cosa accadrà.
Per il primo modo le questioni connesse alla piena accessibilità del codice (open source), al tipo di tecnologia impiegata (Bluetooth vs GPS), al tipo di immagazzinamento dei dati (centralizzato vs decentralizzato), all’integrazione con gli altri Paesi Europei e con il progetto avviato da Google e Apple, alla circoscrizione temporale del fenomeno, sono tutte fondamentali e da mettere al centro della discussione; devono inoltre essere esplorate da diverse prospettive, da persone con diverse competenze (informatiche, antropologiche, psicologiche, filosofiche, mediologiche e politiche). Un esempio in tal senso è offerto in questo articolo. Per il secondo modo, tutto questo non si dà nemmeno in prima istanza.
Qui non vorrei dare una soluzione per cui si debba o non si debba scaricare un’App – atteggiamento in linea con l’antidogmatismo che difendo – ma fornire alcuni spunti di metodo per non finire come i pesciolini della storiella iniziale e regolare invece il rapporto tra ambiente naturale e ambiente mediale, tra vita organica e identità digitale. La ricetta, in fondo, è estremamente semplice e si fonda su due parole: fiducia e consapevolezza.
Fiducia: se come cittadino pretendo di essere trattato come tale e non come una scimmia ammaestrata, devo a mia volta trattare lo Stato come una Repubblica democratica e non come una dittatura. Si tratta di un principio di reciprocità dal quale, per onestà intellettuale, sento di non potermi sottrarre. Non importa che questa fiducia sia stata clamorosamente disattesa finora: inseguire corridori sulla spiaggia non suggerisce, perlomeno a me, l’idea di uno Stato che affronta con razionalità un’emergenza, ma uno Stato che applica un modello ottuso senza valutare le cose adeguatamente. Ma il patto di fiducia è sempre condizione essenziale in un qualsiasi negoziato civile. La fiducia verso le istituzioni va dunque alimentata e non minata, così come va sempre pretesa anche se non sempre dimostriamo di essercela guadagnata.
Lo stesso vale per l’atteggiamento nei confronti dei nostri concittadini. Considerazioni del tipo se-lo-fa-uno-lo-fanno-tutti, oppure l’italiano-è-incivile-e-non-ci-si-può-fidare, non solo sono completamente infondate da un punto di vista logico, ma fungono da causa di loro stesse: infatti, se io mi figuro uno Stato che mi inchioda in casa contro ogni evidenza sullo stare all’aria aperta e mi figuro il mio concittadino come un furbetto che non aspetta altro che avere un’occasione per comportarsi male, come potrò mai agire nell’interesse della collettività? Sarò frustrato e incazzato, invece che responsabile e comprensivo. Sarò indotto a smettere di pensare annullandomi sul divano e su Internet (se ce li ho, ovviamente) o a trasformarmi nel furbetto che tanto temo per non soccombere alla frustrazione.
Consapevolezza: La fiducia da sola non basta, dopotutto siamo cittadini e non bambini. Se un bambino si può affidare senza preoccuparsi di altro, un cittadino deve sempre essere consapevole e informato. Prima di tutto dobbiamo esigere che l’App sia la migliore App possibile, pretendendo che soddisfi dei requisiti, tecnici e di principio, che reputiamo non negoziabili. Per quanto mi riguarda questi requisiti sono la piena accessibilità del codice e la limitazione temporale del suo impiego, ma potrebbero essercene anche altri che scaturiscono da un confronto serrato e continuo tra le parti.
L’aspetto temporale – ovvero il fatto che non ce ne libereremo mai qualora dovesse entrare in funzionamento – è certamente il più importante ed è quello che di solito incute più timore. L’argomento di chi teme che ciò accada è grossomodo il seguente: l’eccezione-sorta-in-emergenza-diventa-la-norma. Ecco il parallelismo della forma di ragionamento con la chiusura ottusa nelle case. Individuare un principio di funzionamento come ipotesi (perché no, plausibile) e istituirlo come condizione ineluttabile. Di solito segue l’esposizione di casi del passato che supportano tale ipotesi e/o la rappresentazione di stati futuri che ci fanno toccare con mano i rischi che corriamo (premediazione).
La privacy è, naturalmente, l’oggetto della contesa. E il controllo che dalla sua violazione verrebbe innescato e legittimato. Io ci tengo alla mia privacy, non voglio che qualcun altro ficchi il naso nelle mie pratiche quotidiane e mi tenga d’occhio. A questa risposta di solito si fa notare, molto sommessamente, che la privacy è un concetto liquido e relativo, ben illustrato dalla storiella dei pesci raccontata all’inizio. Infatti, di quale privacy si sta parlando? Quella dei gusti? Quella delle idee politiche? Quella degli spostamenti? Quella della rete delle amicizie? Quella dei rituali domestici? Quella dell’orientamento sessuale? Quella delle cartelle cliniche? Quella del cloud così-è-tutto-sincronizzato? Quella delle conversazioni in chat? Quella della carta di credito strisciata qui e lì? Quella dell’orologio che misura il battito? Noi siamo già dati, noi siamo già informazione in vendita. Pertanto inneggiare astrattamente, senza-se-e-senza-ma all’ideologia della riservatezza è ingenuo nel migliore dei casi e disonesto nel peggiore.
Al che i più maliziosi, con un guizzo, rispondono: che c’entra, in quel caso io-ho-dato-il-consenso. Oppure, che c’entra: un conto è dare i nostri dati a delle multinazionali americane che sono cool e li proteggono (Cambridge Analytica e i vari data leaks, a quanto pare, non sono serviti a scalfire questa idea) altra cosa è darli allo Stato Italiano che può limitare i miei diritti e agire, tramite la polizia, sulle mie libertà. E via col pendio scivoloso, per cui, nel giro di un anno o più, saremo ridotti in stato di Sorveglianza Perpetua. Amen.
Perché dico che il concetto di privacy è liquido e relativo e che dobbiamo necessariamente essere consapevoli di questo fatto? Perché la duplicazione dell’individuo in corpo organico e identità mediale è un problema che precede, e non di poco, le circostanze attuali. Come i giovani pesciolini nell’acqua siamo nati ciechi rispetto alla condizione di esternalizzazione che le tecnologie di duplicazione della realtà hanno inaugurato. Quando fu inventata la fotografia – la prima tecnologia che riproduceva la realtà bypassando l’interveno cretivo umano – le reazioni furono delle più diverse e coprirono tutto lo spettro emotivo. Esaltazione entusiasta e terribile timore accompagnarono l’ascesa dell’immagine tecnica nella Parigi dell’Ottocento: per la prima volta nella storia dell’umanità era possibile conservare un’immagine riflessa di sé, un doppio speculare che sarebbe rimasto depositato su un supporto, sfuggendo allo spazio e al tempo.
La propria faccia divenne merce di scambio perché su di essa si sarebbe perso, per sempre, il controllo esclusivo: con la fotografia abbiamo perso la proprietà della visibilità del nostro corpo. Ciò avrebbe comportato una rivoluzione copernicana nelle tecniche del controllo. E così fu, infatti: Alphonse Bertillon a Parigi e le “gemelle” del commissario Ellero crearono lo standard tuttora in uso della fotografia segnaletica fronte-profilo. Se questo sia stato un bene o un male, lo lascio al vostro giudizio. La notizia che vorrei sottolineare, però, è che non tutto ciò che in quel periodo sembrava giusto, necessario, ortodosso, indispensabile e conseguito nei fatti e nelle pratiche è sopravvissuto fino ai giorni nostri. La fisiognomica, per esempio, ovvero l’idea che i tratti somatici siano un’indicazione diretta del comportamento (criminale) umano, conobbe una stagione di straordinaria fioritura e di accreditamento scientifico di livello europeo, per poi essere bollata come pseudoscienza.
In questo consiste la liquidità e la relatività del concetto di privacy. Per molti parigini del Diciannovesimo secolo era scandalosamente grave e pericoloso ricorrere alla fotografia. Per molti altri, invece, era estremamente intrigante. Queste forze si contrapposero e forgiarono il nuovo universo mediale esternalizzante che ne scaturì. Da allora, come sappiamo, molte altre tecnologie della duplicazione sono subentrate. Se ci focalizziamo sulla singola App, se facciamo convergere tutte le nostre risorse intellettuali su un unico oggetto-processo, perdiamo di vista completamente il mare in cui siamo immersi. Questo esercizio della consapevolezza deve costantemente guidare il nostro giudizio critico nella valutazione delle circostanze mediali. Non siamo più solo corpi che vivono nello spazio, siamo anche avatar che circolano nel mare elettrico.
Rigettare l’impiego di un’App sulla base di motivazioni che pretendono di isolarla dal contesto mediale significa fare come i pesciolini che non sanno cosa sia l’acqua. Perché se riteniamo che avere accesso all’informazione sia un diritto, che interagire tramite interfacce con altri esseri umani sia piacevole o anche solo possibile, o che osservare o addirittura influenzare il mondo dalla propria poltrona sia una conquista, allora dobbiamo essere disposti e negoziare quello spazio adeguandoci alle pressioni che esercita. Attenzione però: adeguarsi significa farsi pari, non sottomettersi. Significa relazionarsi col proprio ambiente e divenirne consapevoli percettivamente e dunque cognitivamente, per poi, solo allora, agire politicamente.
Certo, l’alternativa c’è: ed è quella del pesciolino che, stanco di adeguarsi all’acqua, cominciò a desiderare l’aria…